mercoledì 30 aprile 2008

Benigni legge Dante

Paradiso - Canto XXXIII

1 commento:

Arianna ha detto...

Paradiso

Canto XXXIII

"Vergine Madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

3 termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ’l suo fattore

6 non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

9 così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ’ mortali,

12 se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

15 sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

18 liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

21 quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l’infima lacuna

de l’universo infin qui ha vedute

24 le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute

tanto, che possa con li occhi levarsi

27 più alto verso l’ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi

più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi

30 ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi

di sua mortalità co’ prieghi tuoi,

33 sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi

ciò che tu vuoli, che conservi sani,

36 dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani:

vedi Beatrice con quanti beati

39 per li miei prieghi ti chiudon le mani!".

Li occhi da Dio diletti e venerati,

fissi ne l’orator, ne dimostraro

42 quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,

nel qual non si dee creder che s’invii

45 per creatura l’occhio tanto chiaro.

E io ch’al fine di tutt’i disii

appropinquava, sì com’io dovea,

48 l’ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m’accennava, e sorridea,

perch’io guardassi suso; ma io era

51 già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera,

e più e più intrava per lo raggio

54 de l’alta luce che da sé è vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio

che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,

57 e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colüi che sognando vede,

che dopo ’l sogno la passione impressa

60 rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa

mia visïone, e ancor mi distilla

63 nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

66 si perdea la sentenza di Sibilla.

O somma luce che tanto ti levi

da’ concetti mortali, a la mia mente

69 ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,

ch’una favilla sol de la tua gloria

72 possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria

e per sonare un poco in questi versi,

75 più si conceperà di tua vittoria.

Io credo, per l’acume ch’io soffersi

del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,

78 se li occhi miei da lui fossero aversi.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito

per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi

81 l’aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond’io presunsi

ficcar lo viso per la luce etterna,

84 tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

87 ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

90 che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo

credo ch’i’ vidi, perché più di largo,

93 dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

Un punto solo m’è maggior letargo

che venticinque secoli a la ’mpresa

96 che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,

mirava fissa, immobile e attenta,

99 e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,

che volgersi da lei per altro aspetto

102 è impossibil che mai si consenta;

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,

tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella

105 è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,

pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante

108 che bagni ancor la lingua a la mammella.

Non perché più ch’un semplice sembiante

fosse nel vivo lume ch’io mirava,

111 che tal è sempre qual s’era davante;

ma per la vista che s’avvalorava

in me guardando, una sola parvenza,

114 mutandom’io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza

de l’alto lume parvermi tre giri

117 di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri

parea reflesso, e ’l terzo parea foco

120 che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco

al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

123 è tanto, che non basta a dicer "poco".

O luce etterna che sola in te sidi,

sola t’intendi, e da te intelletta

126 e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

129 da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige:

132 per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

135 pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:

veder voleva come si convenne

138 l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

141 da un fulgore in che sua voglia venne.

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

144 sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.